In tema di reati contro la persona si verifica il reato di “lesioni personali colpose” se vi è la somministrazione di farmaci off label, cioè utilizzati per scopi diversi da quelli consigliati, da parte del farmacista che non era abilitato a somministrarli e che, con il suo comportamento, ha causato l’insorgere di una malattia riconducibile al farmaco che è stato somministrato.
È quanto ha deciso la Corte di Cassazione con la pronuncia n. 10.658 del 2024 intervenendo su un caso che è di sicuro interesse, anche se decisamente al limite della casistica di rilievo penale per il farmacista: riguarda infatti l’ipotesi in cui quest’ultimo ha svolto, senza titolo, l’attività di dietologo somministrando a una paziente che voleva dimagrire medicinali prodotti in farmacia.
A mio avviso, la questione si rivela tutt’altro che peregrina posto che, con il concretizzarsi della disciplina normativa sulla farmacia dei servizi, ben potrebbe accadere che lo stesso titolare di farmacia possegga il titolo per l’esercizio della professione di dietologo, di dietista o di figure affini e si domandi se sia possibile o meno l’esercizio cumulativo delle due attività in farmacia.
Prima di rispondere, vediamo più nello specifico i fatti della vicenda che possono essere sinteticamente ricostruiti nei termini che seguono:
- un paziente si rivolgeva al titolare di una farmacia, noto anche per l’esercizio di fatto dell’attività di dietologo, per intraprendere una dieta;
- in quell’occasione non avveniva alcuna visita medica, né venivano ordinate analisi di laboratorio, né veniva stilata la classica dieta con l’indicazione dei pasti e delle relative quantità;
- il trattamento dimagrante era costituito unicamente dalla somministrazione di pillole preparate dalla stessa farmacia e che dovevano essere assunte prima dei pasti principali;
- tali pillole, si legge nella sentenza, a detta del farmacista avrebbero eliminato le calorie introdotte con il cibo ed avrebbero assicurato il dimagrimento a prescindere da ciò che la paziente mangiava;
- sin da subito la cliente avvertiva una totale perdita dell’appetito, una continua sete nonché conati di vomito e un senso di spossatezza che limitava notevolmente la qualità di vita al di là del dimagrimento registrato;
- contattato il farmacista e rappresentatigli i disturbi, lo stesso le diceva di continuare la cura;
- successivamente i sintomi peggioravano e, stante la gravità della situazione, la paziente veniva trasferita all’ospedale dal quale veniva poi dimessa.
Posti questi fatti, la paziente instaurava in seguito un giudizio innanzi al Tribunale di primo grado ed emergeva che le pillole vendute dal farmacista contenevano oltre a diuretici e vitamine, efedrina (sostanza solitamente usata per la cura dell’asma ma che nelle diete agisce aumentando il metabolismo cellulare e stimolando la secrezione di catecolamine) e naxeltrone (che è un antagonista degli oppiacei e che riduce l’attività dei centri cerebrali che controllano la sensazione di piacere collegata all’ingestione del cibo, ma che è anche fortemente epatotossico e va dunque somministrato solo in caso di assoluta necessità).
Il Tribunale concludeva che si trattava di farmaci “off label”, cioè utilizzati per scopi diversi da quelli consigliati, “senza alcuna valutazione del rapporto tra costi e benefici, senza adeguata valutazione clinica, senza ricetta, al di fuori dei canoni previsti dalla legge 94/98 (c.d. legge Di Bella) e del Codice deontologico e peraltro da soggetto che, essendo farmacista, non era neppure abilitato a somministrarli”.
Del pari il Tribunale ravvisava anche la sussistenza del nesso di causalità tra il trattamento somministrato dal farmacista e le lesioni patite dalla vittima, come riconosciuto in termini di assoluta certezza da tutti i consulenti.
Più in dettaglio, la ipokaliemia, e più in generale il grave squilibrio elettrolitico riscontrato nella paziente che si trovava disidratata in modo pericoloso, non poteva che essere derivato dalla somministrazione spregiudicata e in massicce quantità di molecole quali il bumetamide associato ad altre molecole che pure presentavano un grado di tossicità non trascurabile e che addirittura interagivano sui centri nervosi.
In altre parole, la persona offesa, giovane e in buona salute, in soli tre mesi di trattamento aveva visto compromesse le sue condizioni di salute in maniera così rilevante da dover essere ricoverata con pericolo tutt’altro che lieve per la sua salute.
L’impianto della motivazione della sentenza di primo grado veniva integralmente recepito anche dal Giudice della Corte di Appello e, di fatto, accolto dalla Corte di Cassazione con la pronuncia in commento.
In sostanza, il farmacista è stato ritenuto responsabile del reato di lesioni “colpose” per la somministrazione di farmaci e condannato alla reclusione oltre che al risarcimento dei danni patiti dalla paziente.
Il reato in questione è disciplinato dall’art. 590 del Codice penale che punisce chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale e prevede la punizione della reclusione fino a tre mesi o la multa fino a euro 309.
La norma soggiunge che se la lesione è grave la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della multa da euro 123 a euro 619, se è gravissima, la sanzione della reclusione va da tre mesi a due anni o consiste nella multa da euro 309 a euro 1.239.
Inoltre, ed è il caso della sentenza in commento, se i fatti sono commessi nell’esercizio abusivo di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato o di un’arte sanitaria, la pena è aumentata: per lesioni gravi è della reclusione da sei mesi a due anni e per lesioni gravissime è della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni.
In sostanza, la norma protegge l’incolumità della persona per l’ipotesi in cui per colpa subisca delle lesioni, prevedendo un aggravio di pena a carico del responsabile se costui abbia esercitato abusivamente una professione per la quale è richiesta un’abilitazione o un’arte sanitaria.
Si tratta proprio dell’ipotesi della sentenza in commento ove il farmacista, esercitando abusivamente la professione di dietologo ha arrecato lesioni colpose alla sua cliente.
Alla luce della sentenza in commento e senza che ci si trovi nelle stesse condizioni, occorre comunque che il farmacista ponga particolare attenzione al discrimine che intercorre fra l’attività di consulenza che può e deve rendere nell’esercizio della sua professione e quella che, invece, integra lo svolgimento abusivo di una professione sanitaria, a maggior ragione quando si arrecano lesioni anche solo di natura colposa.
Come già detto, il fatto che i farmaci fossero stati direttamente preparati e confezionati dal farmacista ha aggravato la posizione processuale di quest’ultimo, che dietologo non era, e, dunque, non poteva esercitarne la professione e tanto meno somministrare i farmaci per il dimagrimento.
Il tema in questione, come anticipato, offre l’occasione per una riflessione più ampia riferita al cosiddetto “divieto di cumulo soggettivo” della professione di farmacista con quella di una diversa professione sanitaria.
In punto, la giurisprudenza amministrativa si è espressa nel senso che il divieto in questione riguarda i profili deontologici delle attività esercitate e vuole evitare il rischio che, in casi di esercizio di entrambi i ruoli (di farmacista e di altra professione sanitaria), si verifichino “gravi distorsioni” nel rapporto con i pazienti, o possibili “conflitti di interessi” o comunque in ogni caso “sospetti” che il medico-farmacista faccia luogo a eccessive prescrizioni di medicinali “pro domo sua” (cfr anche parere Fofi 11132-/2018).
Si tratta di principi da tenere in considerazione in termini generali ma, soprattutto, alla luce delle prime applicazioni normative regionali sulla farmacia dei servizi che vedono coinvolte le professioni sanitarie nel loro complesso.